venerdì 12 febbraio 2010

Dai quaderni di Saramago, Haiti

Il giorno di Ognissanti del 1755 Lisbona fu Haiti. La terra tremò quando mancavano pochi minuti alle dieci del mattino. Le chiese erano piene di fedeli, i sermoni e le messe al loro apice… Dopo una prima scossa, la cui magnitudo i geologi oggi calcolano possa aver toccato il nono grado della scala Richter, le repliche, anch’esse di grande potenza distruttiva, durarono ancora l’eternità di due ore e mezza, trasformando l’85% delle costruzioni della città in macerie. Secondo testimoni dell’epoca, l’altezza dell’onda dello tsunami che ne risultò fu di 20 metri, causando 600 vittime tra la moltitudine attratta dall’insolito spettacolo del letto del fiume lastricato di relitti di navi là affondate nel corso del tempo. Gli incendi durarono cinque giorni. I grandi edifici, palazzi, conventi, colmi di ricchezze artistiche, biblioteche, gallerie di dipinti, il teatro dell’opera da poco inaugurato, che, bene o male, avevano resistito ai primi colpi del terremoto, furono divorati dal fuoco. Dei 275 mila abitanti che Lisbona aveva all’epoca, si crede ne siano morti 90 mila. Si racconta che all’inevitabile domanda “E adesso, cosa fare?”, il ministro degli Esteri Sebastião José de Carvalho e Melo, che più tardi fu nominato primo ministro, avrebbe risposto “Sotterrare i morti e prenderci cura dei vivi”. Queste parole, che entrarono subito nella Storia, furono effettivamente pronunciate, ma non da lui. Le disse un ufficiale maggiore dell’esercito, in questo modo spogliato del suo merito, come tante volte succede, a favore di qualcuno più potente.

Sotterrare i suoi cento venti mila, o più, morti è quello che sta facendo adesso Haiti, mentre la comunità internazionale si sforza di prendersi cura dei vivi, nel mezzo del caos e della disorganizzazione multipla di un paese che anche prima del terremoto, da generazioni, già si trovava nello stadio di catastrofe lenta, di calamità permanente. Lisbona è stata ricostruita, anche Haiti lo sarà. La questione, per quanto riguarda Haiti, risiede nel come si deve ricostruire efficacemente la comunità del suo popolo, non solo ridotto alla povertà più estrema ma anche estraneo a un qualsiasi sentimento di coscienza nazionale che gli permetta di raggiungere da solo, con tempo e lavoro, un ragionevole grado di omogeneità sociale. Da tutto il mondo, da luoghi diversi, milioni e milioni di euro e di dollari si stanno riversando su Haiti. I rifornimenti sono arrivati in un’isola in cui mancava tutto, o perché perso nel terremoto, o perché non c’è mai stato. Come per un intervento di una divinità particolare, i quartieri ricchi, in confronto con il resto della città di Port-au-Prince, sono stati poco colpiti dal sisma. Si dice, e a giudicare da quello che è successo a Haiti ci pare certo, che i disegni di Dio siano imperscrutabili. A Lisbona le preghiere dei fedeli non hanno potuto impedire che i tetti e le mura delle chiese gli cadessero addosso schiacciandoli. A Haiti neanche la semplice gratitudine per aver avuto salva la vita e i beni senza aver fatto nulla per meritarlo, ha mosso i cuori dei ricchi verso la disgrazia di milioni di uomini e donne che non possono neanche fregiarsi del termine di compatrioti perchè appartenenti al più infimo dei livelli della scala sociale, ai non-esseri, ai vivi che sono sempre stati morti perchè la vita piena gli è stata negata, schiavi erano dei padroni, schiavi sono delle necessità. Il cuore del ricco è la chiave della sua cassaforte.

Ci saranno altri terremoti, altre inondazioni, altre catastrofi di quelle che chiamiamo naturali. Abbiamo il riscaldamento globale con le sue siccità e le sue inondazioni, le emissioni di CO2 che solo perchè obbligati dall’opinione pubblica i governi si rassegneranno a ridurre, e forse è già all’orizzonte qualcosa a cui sembra nessuno voglia pensare, la possibilità di una coincidenza di fenomeni causati dal riscaldamento con l’avvicinarsi di una nuova era glaciale che coprirebbe di ghiaccio mezza Europa e che adesso starebbe dando i primi e ancora benigni segnali. Non succederà domani, possiamo vivere e morire tranquilli. Ma, lo dice chi sa, le sette ere glaciali attraveso cui il pianeta è passato fino a oggi non sono state le uniche, ce ne saranno altre. Nel frattempo, guardiamo verso Haiti e verso le altre mille Haiti che esistono al mondo, non solo quelli che sono praticamente seduti su instabili faglie tettoniche per cui non c’è una soluzione possibile, ma anche verso quelli che vivono sul filo del rasoio della fame, della mancanza di assistenza sanitaria, dell’assenza di una istruzione pubblica soddisfacente, dove i fattori propizi allo sviluppo sono praticamente nulli e i conflitti armati, le guerre tra etnie separate da differenze religiose o da rancori storici la cui origine ha finito per essere dimenticata in molti casi, ma che gli interessi odierni si ostinano ad alimentare. L’antico colonialismo non è scomparso, si è moltiplicato in diverse varianti locali, e non sono pochi i casi in cui i suoi eredi immediati sono state le stese elite locali, vecchi guerriglieri trasformati in nuovi esploratori del loro popolo, la stessa ingordigia, la crudeltà di sempre. Sono queste le Haiti che vanno salvate. C’è chi dice che la crisi economica sia venuta a correggere la traiettoria suicida dell’umanità. Non sono molto sicuro di questo, ma almeno che la lezione di Haiti possa servire a tutti noi. I morti di Port-au-Prince sono andati a far compagnia ai morti di Lisbona. Non possiamo fare più nulla per loro. Adesso, come sempre, il nostro dovere è di prenderci cura dei vivi.

J.S.

da: http://quadernodisaramago.wordpress.com/

Per info su Haiti: http://associazionecoloresperanza.wordpress.com/

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